Tumore alla mammella, le nuove frontiere della ricerca

Il tumore della mammella resta una delle patologie più temibili. Delle nuove frontiere, dello studio e delle terapie innovative ne abbiamo discusso con il Professor Sabino De Placido, ordinario di Oncologia Medica all’Università Federico II Napoli e componente del Comitato Tecnico-Scientifico Pascale di Napoli

 

Partiamo subito da dati e numeri dell’incidenza di questa patologia in Italia ed in Campania. Quali sono i casi che si registrano e quali le prospettive future nel nostro territorio?

Il tumore della mammella è il tumore più frequente nelle donne, nel 2022 si sono stimati in Italia 55.700 nuovi casi, attorno al 30% di tutti i tumori femminili. In termini di mortalità abbiamo un numero nettamente ridotto, circa 15.500 donne. Questo divario tra il dato di incidenza e quello di mortalità indica che abbiamo buone performance in termini di cura e di possibilità di sopravvivenza. In Campania sono stimati, sempre nel 2022, 4020 casi e sono allineati con quelli nazionali. Per la numerosità si può parlare di un grande problema di tipo sociale. Vorrei sottolineare in termini di dati che il tempo di sopravvivenza relativa a 5 anni dalla diagnosi è 88%, che rappresenta l’aspettativa di vita di una donna colpita dal tumore alla mammella rispetto ad una comparabile per età che non ha avuto un tumore. Infine, un dato rilevante può essere quello della prevalenza, abbiamo oggi in Italia 850.000 donne che hanno avuto un tumore alla mammella, considerando ora il dato citato sull’incidenza annuale vuol dire che molte sono guarite o comunque hanno avuto una cronicizzazione della malattia.

È fondamentale divulgare la cultura della prevenzione, modalità e criticità nello screening. Quando e come si può intervenire?

La prevenzione è fondamentale in oncologia, magari potessimo attuare prevenzione per tutte le neoplasie, in genere per tre di queste è raccomandata: tumore alla mammella, alla cervice e al colon retto. La prevenzione si effettua con uno screening mammografico, bisognerebbe fare una mammografia ogni due anni in età fra 50 e 70 anni e avremmo un anticipo diagnostico rispetto al convenzionale di circa 2 anni, una diagnosi quindi molto precoce con altissime aspettative di guarigione e di non avere terapie importanti. Le raccomandazioni europee sono che si arrivi a un invito esteso al 90% della popolazione femminile in quella fascia di età entro il 2025, in Italia non siamo male, siamo all’85%. Il dato preoccupante è il divario che esiste tra il Nord e il Sud, ad esempio, sulla media nazionale al sud siamo a poco meno del 65% e anche in termini di aderenza allo screening, su una media nazionale di partecipazione che si attesta intorno al 60%, al meridione siamo al 41%. Per fronteggiare questa criticità bisognerebbe aumentare un po’ le offerte aumentandone, per esempio, gli appuntamenti in modo tale che anche le persone che abitano in zone decentrate rispetto alle ASL possano partecipare. Si potrebbe inoltre chiedere il coinvolgimento dei medici di medicina generale che dovrebbero promuovere con le donne con cui hanno un rapporto personalizzato, seguendone la loro salute, ed infine un ampliamento della comunicazione dando questo messaggio in maniera più comprensibile.

Non esiste un solo tipo di malattia, la gravità dei tumori è ciò che influenza anche la cura da adottare. Quali le differenze e relative forme d’intervento?

L’intervento terapeutico è fondamentale, intanto diciamo subito che grazie alle conoscenze scientifiche e biomolecolari su come si sono generati e come crescono i tumori oggi abbiamo forti indicazioni. Il primo dato che abbiamo compreso è che esiste una grossa eterogeneità tumorale, non esiste il tumore della mammella, ne esistono tanti tipi diversi tra di loro. L’eterogeneità può essere intertumorale tra le diverse persone o intratumorale, nasce in un modo e poi muta e si evolve nella persona. Sulla base dei profili genici nella prima parte del tumore abbiamo già quattro tipi su cui dobbiamo operare, i primi si chiamano ‘tumori luminali A e B’ che esprimono recettori per gli ormoni estrogeni e progestinico e crescono sotto lo stimolo degli estrogeni, questo è un dato rilevante; poi ci sono i tumori “her2 positivo” che crescono sotto lo stimolo di questo recettore per fattori di crescita; esistono poi i tumori “triplo negativi” per i quali non sappiamo e non esistono recettori per estrogeno progestinico e per l’her2, quindi si conosce poco rispetto ai driver di crescita ma su cui si lavora tantissimo dal punto di vista della ricerca. Se i tumori crescono sotto stimoli diversi e crescono in modo diverso tra di loro è ovviamente necessaria una terapia diversa, oggi nel tumore alla mammella si parla assolutamente di terapia personalizzata e in alcuni casi anche di medicina di precisione per trattare una donna in maniera diversa dall’altra se il meccanismo di genesi e di evoluzione è completamente diverso.

In quale direzione si sta muovendo la ricerca nello sviluppo di farmaci innovativi per la cura dei casi clinici più frequenti?

Oggi abbiamo avuto e continuiamo a dare delle innovazioni e sviluppi di farmaci che cambiano la storia naturale della malattia rispetto all’attesa. I tumori più frequenti, per il 65-66% dei casi, sono quelli ormonodipendenti, cioè che crescono sotto lo stimolo di estrogeni e per 30 anni stati trattati con i semplici farmaci ormonali che riducevano nella fase post-chirurgica la possibilità di ricaduta nel tempo. Oggi abbiamo una grande rivoluzione in questo senso ovvero i farmaci inibitori di ‘ chinasi 46 ciclinadipendente’ che sono quelli che regolano la duplicazione delle cellule e sono in grado di non far più moltiplicare le cellule. Una grossissima novità è che nei casi in cui è più alta la possibilità di ricaduta dato per due anni abbiamo una riduzione proporzionale del rischio di ricadere del 33%, la comunità scientifica considera questo dato importante per l’entità e la rilevanza clinica del risultato ed in più perché si verifica in quelli con la probabilità proporzionale più alta di ricadere.

Il tumore della mammella è seguito in “Breast Unit” fortemente volute dall’associazione pazienti. Quali i vantaggi?

La “brest unit” più che un aspetto strutturale può essere una modalità assistenziale completamente diversa guidata da aspetti di alta tecnologia e dalla cooperazione di più specialisti. Si fonda su due pilastri essenziali: il primo è il percorso diagnostico-terapeutico di alta tecnologica definita a priori, comune ed omogeneo per tutte le breat unit nella nostra Regione pubblicato sul Burc regionale e il secondo è quello di avere un team multidisciplinare, cioè avere la contemporanea presenza sul caso clinico di vari specialisti come l’oncologo medico, il chirurgo, il radioterapista, il radiologo, l’anatomopatologo, se vogliamo anche l’esperto di psicologia oncologica, i terapisti del dolore, che mettono insieme questi saperi trasversali concentrati sul caso della paziente. La caratteristica è che prendono in carico insieme questa paziente, la discutono insieme ed è ovvio che abbiamo delle ricadute di enorme importanza, la prima è l’adeguatezza dei trattamenti, la seconda è l’equità in tutta la Regione, terza ancora può essere l’altissima qualità dell’assistenza. Nel mondo scientifico vediamo già le prime pubblicazioni che grazie solo a questa costituzione di breast unit migliora notevolmente il dato di sopravvivenza o riduzione di mortalità

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