Affrontiamo un tema molto delicato, ovvero quello legato all’identità personale e lo facciamo insieme allo psicologo e Direttore del TCE – Therapy Center Elpidio Cecere.
Dottore, sono tante le immagini che ognuno si trova a costruire di sé in base ai contesti in cui si trova e alle persone con cui ci si interfaccia, ma quanto diventa poi difficile riuscire a non perdere di vista il proprio io?
Ci sono due domande molto difficili a cui trovare una risposta, la prima è ‘come stai?’ e la seconda è ‘chi sei?’, a quest’ultima diamo una risposta che non abbiamo deciso noi, la prima risposta è il nome, che hanno deciso i nostri genitori, poi possiamo dire dove siamo nati, quando siamo nati, e non l’abbiamo deciso noi. Tutto parte da qui, dal fatto che gli altri ci hanno fatto diventare qualcosa e hanno deciso di decidere per noi. Al di là di questo noi decidiamo chi vogliamo essere nella nostra vita e questa si chiama identità personale, tra l’altro è un argomento che portiamo spesso all’interno delle scuole. All’interno di una società in cui il dubbio prevale su tanti argomenti, il dubbio permette di essere costantemente eccitati, molti pazienti si lamentano che non riescono a prendere una decisione, paragonandosi agli altri esseri umani, principalmente sul chi sono e cosa vogliono diventare, temi su cui c’è molta difficoltà, stare all’interno del dubbio è molto eccitante perché ci fa stare in mezzo tra il voler essere qualcosa e il dover essere qualcosa.
A influire maggiormente sono le aspettative che le persone nutrono nei nostri confronti che possono condizionare alcune scelte o comportamenti pur di non deluderle. Come imparare a farsi scudo e salvaguardare la propria identità?
Le aspettative sono fondamentali, sia sociali che genitoriali. Queste ultime iniziano sin da piccoli e , soprattutto in un periodo di grande incertezza come quello attuale, possono spingerci verso qualcosa di più sicuro rispetto ad alimentare le nostre passioni. È molto complicato per un figlio dire no ad un genitore che ritiene che quel qualcosa sia necessario per noi. L’aspettativa sociale è quella di una società che ci impone di diventare qualcosa, è complicatissimo, per esempio, per un adulto rispondere di non avere un lavoro ad una domanda diretta su questo tema, essendo questo una cosa molto identificativa che ci dà un ruolo nella società. Un’altra osservazione importante in questi temini è quando un paziente mi dice che non sa se il lavoro che fa è quello che avrebbe voluto fare, rientra sempre in quell’eccitazione del dubbio di cui parlavamo prima. Possiamo tranquillamente dire a noi stessi che è difficilissimo prendere una decisione oggi che possa durare per tutta la vita.
Su questo argomento quanto influisce la costruzione di legami dietro lo schermo di un telefono da cui si può essere chi o come si vuole?
Bisogna innanzitutto accettare la persona che siamo e il fisico che abbiamo, questa non viene naturalmente ma può arrivare attraverso il supporto genitoriale o quello psicoterapico. Quando non sappiamo chi siamo abbiamo la necessità di imitare qualcosa che vediamo. Attraverso i nostri comportamenti identifichiamo chi siamo nella società, e quando non si riesce a capire chi siamo, il mio consiglio è di partire da noi stessi, dal nostro fisico, senza paragoni. I canoni di bellezza sono cambiati nel tempo e questo può portare ad aspettarci dal nostro corpo e da ciò che facciamo una somiglianza con qualcosa che funziona nella società. Dobbiamo abbassare le aspettative che abbiamo nei nostri confronti, la sofferenza che proviamo nel non somigliare a qualcosa che vogliamo è troppo forte.
Scoprire e conoscere sé stessi è un tassello fondamentale per l’autodeterminazione dell’individuo. In che modo la terapia può accompagnare il paziente in questo percorso?
Dobbiamo innanzitutto accettare ciò che non possiamo controllare, io infatti, per esempio, parto dal nome. Una delle domande più belle che pongo ai miei pazienti è il perché del loro nome, molte delle risposte hanno dei motivi come il nome di un caro o la scelta da parte di una persona importante. Partire da lì ci fa capire cosa in effetti possiamo modificare e se questa modifica è originata da ciò che vogliamo o da qualcuno che ci dice che quel che siamo non va bene. Un percorso del genere solitamente dura un anno, ma dipende principalmente da tre fattori: l’alleanza tra terapeuta e paziente; la presenza in passato di altri trattamenti che non sono andati a buon fine e la demotivazione che ne deriva e infine quanto il paziente possa rispettare gli homework che vengono consegnati durante la terapia. Al termine della terapia, soprattutto per quella cognitivo-comportamentale, noi infatti diamo delle informazioni e dei compiti che sono sempre utili, anche quando il paziente non riesce a portarlo a termine. L’allineamento tra ciò che il paziente può fare e ciò che realmente fa è fondamentale per conoscere chi siamo.