IL PERSONAGGIO: ANNAMARIA COLAO PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA DI ENDOCRINOLOGIA

La ricerca salverà l’uomo ma servono investimenti e l’Italia è indietro

Prima donna a vincere il riconoscimento europeo come miglior endocrinologo d’Europa, titolare della cattedra Unesco sull’Educazione e lo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli, prima donna presidente della Società Italiana di Endocrinologia, Annamaria Colao è sempre stata abituata a guardare più avanti degli altri e a rompere le barriere. A cominciare dalla sua attività per il sociale, come presidente e coordinatore scientifico dell’Associazione Campus Salute Onlus che si occupa della promozione della cultura della prevenzione. Una donna al lavoro per la scienza, per le altre donne… e per i giovani, come ha rac- contato ai nostri microfoni.

Quando ha deciso che avrebbe intrapreso questo percorso?

Ho deciso un po’ tardi, dopo la maturità: il mio primo amore è l’archeologia, avrei voluto studiare le tracce del- l’essere umano. Mio padre medico mi fece un po’ riflettere e studiare dei per- corsi alternativi, ma la spinta decisiva me la diede mia madre quando disse “scegli quello che vuoi, tanto studi e sei brava, ma non medicina che è troppo difficile e troppo lunga”. Appena mi disse che era troppo difficile decisi di fare medicina!

Tra i più importanti scienziati al mondo, premiata come miglior neuroendocrinologa d’Europa: come si raggiunge il top?

Non c’è una ricetta, io sono stata fortunata perché ho trovato un gruppo di giovani ricercatori che hanno amato la- vorare con me e quindi ho sempre la- vorato in squadra e sono cresciuta tanto con le idee di tutti.

 

Poi ho una tendenza naturale ad essere lungimirante: riesco a disegnare quegli scenari che mi portano verso obiettivi anche lontani, proprio perché non li vedo così distanti. Insomma ci vuole grande lavoro, tenacia, una buona squadra e anche un po’ di talento naturale che ti permetta di vedere attraverso scenari poco battuti. Non a caso io ho fatto l’endocrinologo, una branca della medicina che quando ho iniziato aveva pochi dati a disposizione. A volte bisogna anche un po’ rischiare attraverso percorsi che pochi scelgono.

 

Si parla tanto dei successi ma spesso quello che rende le persone e i professionisti così bravi sono le difficoltà. C’è qualche errore che le ha insegnato tanto?

 

Il percorso è stato molto faticoso ma non mi piace parlare delle difficoltà perché sembra quasi che fai l’eroe. Qualsiasi lavoro ha degli ostacoli: la nostra capacità sta nel vedere anche nell’ostacolo un momento di crescita. L’unico errore che mi attribuisco è che vedo sempre il buono in tutti: non riesco a scorgere la malevolenza negli altri e questo, soprattutto quando ero più giovane, mi ha portato a qualche delusione. Ma è qualcosa che accade nei rapporti umani, è un peccato però si cresce e si va avanti.

In che stato versa la ricerca oggi?

Non ho dubbi che la ricerca salverà il genere umano. Mi dispiace che l’Italia investa sempre troppo poco, soprattutto in quella biomedica: sta dando molto spazio alla ricerca informatica, a quella medica e di bioingegneria, alle nuove attrezzature, i robot, tutto quello che è intelligenza artificiale al servizio della medicina. Ma sta dimenticando un po’ la ricerca fondamentale: i passi più grandi che ha fatto l’umanità sono avvenuti anche per caso…

Nel mondo scientifico c’è parecchio malumore: c’è chi dice che se neanche una pandemia è servita ad aumentare in maniera considerevole i fondi alla ricerca, allora nulla servirà…

Sono d’accordo, sulla sanità si è investito davvero molto poco rispetto ad altre aree. Eppure l’unica cosa veramente importante è la salute dell’essere umano: un individuo che non sta bene non esce, non spende, non fa cultura. Quindi mi auguro che nella strategia di spesa dei fondi delle altre aree si ricavi sempre qualcosa che riguardi la salute umana.

Ma è così difficile fare ricerca nel nostro paese?

Non è difficile, ma il problema è che devi avere ricercatori e menti formate per la ricerca, che abbiano studiato e abbiano talento, perché non tutti quelli che studiano hanno poi la curiosità che un ricercatore deve necessariamente avere per fare quel passo in avanti. E poi servono le infrastrutture, perché puoi essere il ricercatore più bravo del mondo ma se intorno non c’è un sistema che ti permette di verificare la tua idea, fallisci. In Italia siamo bravi sulla parte accademica e di formazione dei ricercatori, tant’è che poi vanno all’estero e fanno brillantissime ricerche. Siamo molto meno bravi a costruire l’infrastruttura della ricerca, perché abbiamo poca capacità e tendenza a lavorare in squadra, siamo molto individualisti e non abbiamo il coraggio di chiudere quelle strutture che hanno dimostrato di non saper lavorare, dirottando quindi i fondi dove c’è capacità. Questo ovviamente ci penalizza rispetto ad altri paesi.

E per una donna è ancora più difficile?

Per una donna è stato difficilissimo, è un mondo molto maschile. Non voglio enfatizzare questo aspetto perché lavoro benissimo con tanti colleghi: il problema non è il singolo individuo ma è il sistema che è organizzato dagli uomini e pensato per gli uomini. Pertanto, non capisce le esigenze femminili, non è neanche cattiveria. Ci vorrà ancora del tempo perché si raggiunga una vera parità ma negli ultimi tempi sono stati fatti passi in avanti, abbiamo tante donne che iniziano ad avere ruoli apicali negli ospedali, nelle strutture di ricerca, in politica. Mi auguro sia un buon segnale per le nuove generazioni.

Lei è titolare della Cattedra Unesco per l’Educazione alla Salute e allo Sviluppo Sostenibile, e se c’è una cosa che ci ha insegnato la pandemia è proprio la necessità di uno sviluppo sostenibile. Ma siamo così indietro sull’educazione alla salute?

Siamo molto indietro: sarebbe necessario formare gli insegnanti, perché educare alla salute non significa fare il medico ma spiegare quei processi biologici che sono alla base di uno stile di vita corretto, a come mantenersi in forma fino all’età anziana. E gran parte di questi insegnamenti andrebbero spiegati già ai bambini. La Campania ha tristemente il primato dell’obesità giovanile e nonostante tanti fondi spesi per la ricerca e la prevenzione nelle scuole i dati continuano ad aumentare: c’è ancora molto da fare.

L’obesità è in aumento, ancora di più con il covid. Serve un approccio diverso?

La pandemia ha portato ad un incremento di peso in tutta la popolazione: si mangia di più, ci si muove di meno. Ma l’obesità è una questione che viene da lontano, è la madre di tutte le battaglie: non bisogna pensare che sia il mangiare di più e il fare meno esercizio fisico, perché quello è il normale sovrappeso che sparisce una volta riprese le abitudini corrette. L’obesità vera è una malattia grave, che ha complicanze importanti e che come tutte le malattie va trattata adeguatamente. Solo da poco in Italia lo Stato riconosce l’obesità come una malattia: finora la si considerava soltanto un problema del singolo paziente che mangiava troppo, cosa lontanissima dal vero, visto che di solito i pazienti obesi mangiano meno dei magri.

Nella sua carriera ha ottenuto tantissimi risultati prestigiosi, ma cosa le piacerebbe ancora raggiungere?

Mi piacerebbe aiutare i giovani talenti della nostra regione, una sorta di Ragazzi di via Panisperna! Aiutare i ragazzi per farli diventare grandi ricercatori nel mondo.

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