GIUSEPPE NOSCHESE
PRESIDENTE IDMA: IL PERSONALE CHE AGISCE IN CASO DI DISASTRI È FORMATO ANCHE PSICOLOGICAMENTE
Il personale sanitario con la pandemia si è ritrovato ad operare in una situazione inaspettata e per questo fare il medico è diventato, se possibile, un mestiere ancor più complicato dal punto di vista psicologico. Per questo diviene fondamentale anche in vista del futuro e delle prossime catastrofi la formazione di personale che sappia intervenire con professionalità in caso di disastri naturali o artificiali. Di questo abbiamo parlato con il dottor Giuseppe Noschese, presidente dell’IDMA – International Disaster Medicine Association, che tra l’altro qualche anno fa ha vissuto un’esperienza diretta in un’area particolarmente complessa come l’Afghanistan.
Lei è presidente dell’IDMA, un’associazione scientifica che si occupa di formare il personale che interviene in caso di disastri naturali o causati dall’uomo. Che ruolo svolgono questo tipo di professionisti?
Sono più figure professionali, sia personale paramedico che personale sanitario. Sono tutte persone che sono di grande supporto nei momenti in cui ci sono delle aree del pianeta dove avvengono disastri e dove è indispensabile la figura di professionisti abituati a gestire situazioni particolarmente critiche. Esistono due tipi di disastri: quelli di tipo naturale, ovvero quelli legati ad eventi atmosferici come una frana, una valanga, un uragano o un terremoto; per disastri artificiali intendiamo invece tutti quelli causati direttamente dall’uomo, come per esempio una guerra, un disastro industriale ecc.
Fare il medico è già di per sé un mestiere complicatissimo che obbliga spesso a prendere decisioni in poche frazioni di secondo. Farlo in un contesto dove si è appena verificato un disastro è ancora più complesso, quindi come si formano questi professionisti anche dal punto di vista psicologico?
Innanzitutto i professionisti in questione devono essere persone predisposte ad aiutare il prossimo e predisposte anche ad aiutarlo con competenza. Essi devono seguire il sistema metodico del triage: bisogna riuscire a discriminare rapidamente le patologie per gravità, capire rapidamente tra due persone quale delle due che necessitano di soccorso ha più bisogno di aiuto. Questo sistema, che tra l’altro è utilizzato nei pronto soccorso, ci permette così di individuare le persone che hanno bisogno di un aiuto più immediato e consistente rispetto ad altri pazienti. Inoltre, è fondamentale addestrare il personale sotto l’aspetto psicologico, perché oltre a curare il corpo essi sono spesso chiamati a prendersi cura della mente dei pazienti. Immaginate per esempio un terremoto in cui una mamma non trova i figli o un maremoto in cui le famiglie vengono decimate dall’evento. Eventi di questo tipo necessitano da parte del personale preposto di un’adeguata capacità per potersi interfacciare nella maniera giusta sotto l’aspetto psicologico.
Che vuol dire per un medico andare ad operare in un contesto straniero dove sono presenti guerre o particolari disastri?
C’è una grande solidarietà solitamente, perché in genere il personale che si trova in queste situazioni è molto formato e si crea subito una grande complicità tra i professionisti, seppure provenienti da diversi lati del globo. Sicuramente molte volte trovarsi in aree critiche significa trovarsi in battaglia, per cui oltre a cercare di porre aiuto alle vittime bisogna stare attenti anche alla propria incolumità. Questo è un aspetto principale della questione: il soccorritore non deve mai mettere a rischio la propria vita, perché altrimenti le vittime corrono il rischio di raddoppiare. Quindi il primo step è quello di non mettere a rischio la propria incolumità, successivamente bisogna mettere in sicurezza l’area di soccorso, ovvero mettere in atto tutte quelle misure che danno la possibilità di intervento di ulteriore supporto senza rischi.
Però si tratta di situazioni che offrono anche l’opportunità di creare grandi sinergie, ad esempio so che c’è un aneddoto che la lega al re dell’Afghanistan…
Esatto, sono stato il chirurgo del Re dell’Afghanistan. L’ho seguito a Kabul quando lui ebbe dei problemi di salute e poi dalla capitale l’ho seguito all’ospedale militare di New Delhi, dove era stato trasportato viste le scarse condizioni sanitarie della città Afghana. Una volta in India il mio contributo è risultato vincente, in quanto riuscimmo a far uscire sano e salvo il Re dall’ospedale dopo aver fatto un consulto sia con i colleghi indiani sia con un collega che era venuto dagli Stai Uniti.
Che esperienza è stata non solo dal punto di vista lavorativo, ma soprattutto umano?
È stata un’esperienza molto particolare, appena sono arrivato a Kabul ho provato una stranissima sensazione di familiarità nonostante arrivassi per la prima volta in una zona che tra l’altro viveva un periodo davvero critico a causa della guerra. È come se avessi avvertito un ritorno a casa, non ero assolutamente in uno stato di ansia o di agitazione, anzi ero appacificato con me stesso. Ho vissuto come una specie di deja-vu, come se fossi tornato in un luogo di infanzia.
A proposito di disastri, la pandemia ha rimesso al centro la necessità della cooperazione tra civili e militari: in questo momento la cooperazione riveste un ruolo determinante, penso alla logistica e alla campagna vaccinale…
La pandemia è il classico esempio di un disastro naturale per cui diviene necessaria una sinergia civile-militare. Ora abbiamo un commissario all’emergenza, il generale Figliuolo, che ben sta lavorando con le autorità civili. Ha portato il piglio del generale nell’ambito dell’organizzazione e si è visto subito il cambio di passo, di cui avevamo tanto bisogno per portare avanti la campagna vaccinale.